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domenica 30 dicembre 2018

Film Review: American Pastoral


Ieri sera, nella solitudine e nel buio nebbioso della Val Padana, ho deciso che era un buon momento per guardare American Pastoral, la trasposizione cinematografica del romanzo di Philip Roth, col debutto alla regia di Ewan McGregor.

Il film è ormai uscito due anni fa, dopo un lungo travaglio che ha visto susseguirsi diverse persone alla regia, ma la sceneggiatura è sempre stata scritta da John Romano. Che, diciamocelo, non aveva un compito proprio facile, perchè se pensiamo a romanzi che si prestano poco alla trasposizione cinematografica, Pastorale Americana è proprio uno di quelli.

La trama è in realtà molto semplice: siamo negli anni Sessanta, Seymor Levov, il ragazzo più bello e popolare della scuola, dopo la leva militare sposa Dawn, regina di bellezza del New Jersey. Lui è ebreo ed eredita dal padre una fabbrica di guanti in pelle. La moglie invece è cristiana e avranno una bambina, Merry. Merry balbetta molto come strumento di difesa per convivere con la perfezione, sia estetica che lavorativa, dei genitori. Merry crescendo mostra di avere una particolare affezione per il padre e mal sopporta la madre e si appassionerà in età adolescenziale ai problemi del mondo di quel periodo: è contro la guerra del Vietnam, è dalla parte dei neri d’America che vengono sfruttati dai capi bianchi. Conoscerà un gruppo di attivisti rivoluzionari di estrema sinistra a New York e a soli 16 anni compirà il suo primo atto terroristico mettendo una bomba nell’ufficio postale di Newark, la sua città. Da allora sparisce per sempre, e in tutto il film lo Svedese prova con tutte le sue forze a ritrovare la figlia e a portarla a casa.

Io non ricordo quando ho letto il romanzo di Roth, ma penso sia stato un paio di anni fa. E ricordo molto bene che, procedendo con la lettura, ero continuamente stupita dai risvolti della vicenda, nonostante non ci siano colpi di scena particolarmente eclatanti. Il romanzo cerca (e secondo me ci riesce) di mettere nero su bianco il fallimento di una vita intera, ma soprattutto il fallimento di una persona che esternamente sembra perfetta, che mai ci si aspetterebbe possa avere una traiettoria così discendente.

Ora. Io avevo letto qualche recensione qua e là del film che lo linciavano a destra e a manca, per cui onestamente mi aspettavo una cagata pazzesca. In realtà non è poi così brutto, è solo che ha alcuni difetti che mal si sopportano se si ama il romanzo di Roth. In primis, il film è molto breve ed è stata comunque inserita la cornice che c'è nel libro, ovvero quella del racconto di Nathan Zuckerman (alter ego di Philip Roth) attraverso il quale noi veniamo a conoscenza della vicenda di Seymour “Svedese” Levov. Nel film, però, Zuckerman ha un ruolo assolutamente inutile, quando ovviamente nel libro non è così perché è proprio grazie a lui che capiamo quanto sia avvilente e demoralizzante vedere lo Svedese fallire nella sua vita, poiché proprio lui rappresentava per tutti i suoi amici il simbolo della realizzazione del sogno borghese americano.

Inoltre, per quanto a me piaccia Ewan McGregor come attore, non l’avrei mai scelto per interpretare lo Svedese, perché non ha per niente l’aspetto del personaggio descritto nel romanzo. E non è un dettaglio da poco, poiché la sua fisicità è uno dei motivi per il quale Zuckerman credeva che a lui sarebbe andato tutto bene nella vita, ed è anche uno dei motivi per cui, probabilmente, la figlia inizia ad avere problemi nel periodo preadolescenziale. Poi il personaggio di Dawn, madre di Merry e moglie dello Svedese, rimane impresso nel film come assolutamente superficiale quando in realtà lo sviluppo del suo personaggio è più complesso nel romanzo.

Probabilmente il vero, grande problema del film è che la sceneggiatura è un po’ troppo scolastica: tutte le scene salienti vengono rappresentate ma così si perde tutto ciò che rende il romanzo di Roth un capolavoro dell’era contemporanea: quella sensazione di colpa paterna, di incomunicabilità generazionale, di fallimento dell’ideale borghese e consumistico che ha scosso una intera generazione negli Stati Uniti e non solo.

Tuttavia, come vi dicevo all’inizio del post, a me non è sembrato così brutto: la scenografia, specialmente la fabbrica di guanti dello Svedese, è proprio come me l’ero immaginata leggendo il romanzo e le interpretazioni, in primis di Ewan McGregor, sono credibili e trasmettono bene quel senso di assurdità, impotenza e anche squallore che sono poi le stesse sensazioni che si hanno leggendo il romanzo.

Avrei tante altre cose da dire (sul personaggio di Rita Cohen, sul finale, sulla scena cruciale del bacio tra padre e figlia ancora bambina) ma mi fermo qui perché quando parlo di libri e film tratti da libri che ho letto e amato, potrei andare avanti ad infinitum.