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sabato 26 maggio 2018

Film Review: Dogman

Ieri sera ho deciso che era un buon momento per andare al cinema in solitaria a vedere Dogman, di Matteo Garrone. Sono sempre stata molto esterofila nei miei gusti cinematografici, ma ultimamente la mia anima ha sete di cinema italiano. Tutto è in realtà cominciato una sera di qualche mese fa: ero ammalata, non riuscivo a dormire e ho guardato su Rai Movie un film di Francesca Archibugi, Il nome del figlio. So che è il remake di un film francese ma mi è piaciuto davvero molto. E ho iniziato a chiedere a me stessa la ragione per cui non guardo più spesso film italiani. Non ho trovato risposta. Sarà che è da quando ho quattordici anni che studio intensamente le lingue straniere e per impararle meglio guardo cose in lingua originale, sarà che tutto ciò che viene fatto altrove sembra sempre avere un fascino maggiore.. non lo so. Fatto sta che ora voglio recuperare molto del cinema nostrano perché sono molto indietro e terribilmente ignorante a riguardo.

Tutto questo preambolo per dire che io di Garrone non ho mai visto niente: neanche Gomorra o Tale of Tales. Nada. Ma Dogman mi aveva già attirata dal trailer e poi quando ho visto Marcello Fonte che ha vinto il premio come miglior attore a Cannes e la genuinità del suo discorso...non ho potuto fare a meno di recuperarlo al cinema.

Vado al cinema senza leggere trama né sapere niente del fatto di cronaca a cui Dogman è liberamente ispirato. E con gli occhi lucidi esco dalla sala uccisa nei sentimenti.

Dogman è un film sulla desolazione, sul senso di impotenza, sul sentirsi piccoli all'interno del mondo in cui si vive. E queste sensazioni ti rimangono addosso perché Marcello Fonte non sembra nemmeno un attore. E' talmente genuino nella sua interpretazione che manca quel distacco emozionale che normalmente c'è nei confronti di un personaggio tutt'altro che perfetto. Il protagonista Marcello non è né un eroe né un antieroe. E' una persona normale che subisce la violenza psicologica di Simone e non riesce a trovare un modo per liberarsi da questa sorta di Sindrome di Stoccolma che lo lega a lui. La scena in cui Marcello è dalla polizia che lo intima di firmare la dichiarazione che gli permette di non andare in prigione è una delle scene più strazianti di tutto il film. Cruda, diretta, semplice ma potente. Negli occhi di Marcello si legge ogni suo pensiero senza che nessuna parola venga detta. Noi lo capiamo ma al contempo vorremmo dirgli: "Marcé, ripigliati! Non fare il coglione!". Noi non lo possiamo amare come lo ama sua figlia ma non lo riusciamo neanche ad odiare perché Marcello non è cattivo o codardo, è solo impotente nei confronti di una figura che lo usa soprattutto dal punto di vista emotivo per i suoi beceri scopi. Vuole solo essere amato.

Il luogo in cui è ambientato ha il potere di immergere il film in una dimensione tutta sua, che sta in equilibrio tra la distopia e la realtà. Alla fine Marcello vuole solo far vedere ai suoi la sua grande opera, sperando così di riconquistare la loro fiducia e la loro amicizia e quando sembra tanto così dal riuscirci scopriamo che, ancora una volta, è da solo. Da solo nel dolore, da solo nella riuscita di un piano che stava per fallire, da solo nel senso di liberazione. Da solo come un cane. Anzi no, da solo con il suo cane, il suo "amore!"



5 commenti:

  1. Non vedo l'ora di vederlo. Ed era da tempo che non ero così curioso di un film...
    Di Garrone recupera assolutamente "Reality"!

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  2. Dovevo andare a vederlo, ma la compagna sia è spaventata nel leggere la storia originale del Canaro... Pazienza, andrò da solo.

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    1. Ah ma dille che è mooooolto liberamente ispirato, c'entra proprio poco col fatto originale! In ogni caso vai, è veramente bello!

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  3. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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